IL MIO AMICO ABDUL
Raffaele Mangano
Calcutta. Sono capitato in un girone dell’inferno dantesco. Sapevo della sovrappopolazione, della fame, delle malattie e dello sfacelo delle aree urbane indiane. Però non potevo immaginare Calcutta con sette milioni di abitanti e quattro di rifugiati del Bangladesh sparsi per la città . Questi disperati possiedono unicamente la loro vita, se vita si può chiamare. Perderla è una liberazione. Vivono per strada, lungo i marciapiedi, sotto agli androni di palazzi sbrecciati e fatiscenti. Si riparano con assi di legno o cartoni appoggiati ai muri dai quali spuntano le teste di bambini smunti. Credo che lo sguardo degli affamati sia lo stesso in tutte le latitudini. Ma i bambini di Calcutta hanno sguardi ancor più atterriti e angoscianti. L’impatto con questa città si ha già all’arrivo, appena si scende dal treno e si entra nel salone della stazione colmo di umanità sfatta. Ho avuto la sensazione che la vita si svolgesse lungo due assi. Uno verticale a noi consueto e uno orizzontale, dove le persone sembravano essere nel loro stato naturale, sia che si muovessero, parlassero, portassero cibo alla bocca. Una marea di gente sdraiata. Abbiamo preso un risciò trainato da uomini a piedi. Fanno pena questi derelitti sudati e scalzi. Labbra serrate, rughe profonde. E sui risciò siedono tranquillamente notabili, commercianti, turisti. È difficile rimanere insensibili mentre un uomo sta svolgendo le funzioni di un cavallo da tiro. Osservando la loro fatica mi sono sentito in colpa e ho deciso che non li userò più. Il ponte di Howrah unisce il quartiere omonimo al centro della città . Anch’esso è ingombro di gente seduta per terra. In Cotton Street aggiustano il manto stradale e una moltitudine di donne e bambini stanno carponi a spandere il catrame con le mani. Lo pressano ancora caldo, respirando quel fumo acre e corrosivo. La quantità di deformi e mendicanti nei pressi di ogni bettola, ristorante o albergo è impressionante. Davanti al Salvation Army, un ostello frequentato esclusivamente da occidentali, la scena si ripete. Sul marciapiede davanti all’ingresso c’è talmente tanta gente che non si riesce a varcare la soglia. Tendono le mani. Ci toccano. Chiedono. Un disgraziato siede per terra, non ha braccia e tiene una scodella con i denti. Un altro è accasciato, colpito da una crisi di dissenteria. Si rotola nei suoi escrementi e guarda fisso davanti a sé, ma senza più vedere nulla. Una specie di usciere allontana i più aggressivi e ci consente di entrare. Sembra di aver lasciato fuori un incubo. È irreale la situazione all’interno: poca gente, atmosfera rilassata, una parvenza di pulizia. Erich e Franco mi osservano in silenzio mentre sorseggiamo un the. Il loro sguardo dice: dove siamo finiti?